martedì 29 aprile 2014

Quelli che forse non avete ancora visto – “Il cammino per Santiago”, la via lungo cui abbandonare il dolore (con trailer)

La locandina
Il cammino per Santiago

Mia valutazione: ♥♥♥♥ = 8

La scheda
Un film di Emilio Estevez. Con Martin Sheen, Emilio Estevez, Deborah Kara Unger, Yorick van Wageningen, James Nesbitt, Tchéky Karyo, Angela Molina, Carlos Leal, Simón Andreu, Eusebio Lázaro, Antonio Gil, Spencer Garrett. Titolo originale: The Way. Azione, Usa 2010. Durata 94'. 01 Distribution.

La trama
Tom è un medico americano che arriva in Francia per recuperare i resti del figlio morto in una tempesta sui Pirenei mentre percorreva il Cammino di Santiago. Spinto dal desiderio di poter stare ancora un po’ di tempo accanto a lui, cercando di dare un significato a questa perdita, Tom decide di continuare lo storico pellegrinaggio, lasciandosi alle spalle la sua vita in California. Con lo zaino del figlio e una guida, s'incammina per gli ottocento chilometri del cammino ma presto scopre che non sarà solo, incontrerà altri pellegrini, provenienti da tutto il mondo e uniti dal desiderio di comprendere il  profondo significato delle proprie vite. Le privazioni che Tom dovrà affrontare gli permetteranno di comprendere la differenza tra “la vita che si vive e quella che si sceglie di vivere”.

La mia recensione
Il regista
Emilio Estevez
Storia ‘on the road’ o meglio dire, in questo caso, ‘on the way’ e a piedi. Quella way intesa come via, che rispetto alla strada, dà un senso di maggior durezza, fatica - fisica e mentale - pericolo, rischio di perdersi e di perdere, di smarrirsi lungo un cammino che ha sì un obiettivo ben definito ma resta fino alla fine un’incognita in cui o si affoga o si impara a nuotare. È la way del titolo originale, che sarebbe abbondantemente bastato a rendere il senso di questa pellicola del 2010 che in Italia qualcuno ha voluto che fosse conosciuta come Il cammino per Santiago (comunque accettabile rispetto a migliaia di ingiustificabili storpiature).


Compagni di viaggio: da sinistra Martin Sheen, Deborah Kara Unger,
Yorick van Wageningen e James Nesbitt
Ha fatto davvero un bel lavoro il newyorkese Emilio Estevez (attore alla sua terza regia a distanza di quattro anni da Bobby, l’apprezzabile semi-biografico film sulle ultime ore di Robert Kennedy). Estevez è il figlio dell’interprete principale di questa vicenda in immagini, l’oggi 73enne Martin Sheen (nome d’arte di Ramon Gerard Antonio Estevez, che iniziò a contare qualcosa nell’universo in celluloide dagli anni Settanta del secolo scorso con La rabbia giovane [1973] di Terrence Malick, per poi essere consacrato nel 1979 con la parte da protagonista in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola). Autore anche della sceneggiatura, Emilio Estevez decide di raccontare il dolore improvviso, la perdita di un figlio dalla quale scaturiscono decisioni che un uomo senza ferite così profonde non avrebbe mai preso. E un viaggio non programmato è di certo una di queste, soprattutto quando si giunge da una vita tranquilla, senza scossoni, forse anche un po’ noiosa, tra lo studio medico in cui si lavora e una partita a golf con amici o colleghi.

Martin Scheen in una scena de Il cammino per Santiago
Un viaggio che è l’unica cosa da fare in quel momento di sconcerto e che diventa anche l’unica speranza di non crollare. Il dolore che diventa rabbia, chiusura in se stessi. Il protagonista, ben disegnato dallo script, ha un obiettivo preciso, così com’è chiaro che incognite ve ne saranno a ogni passo. L’immedesimazione dello spettatore con questa persona che si lascia risucchiare dalla storica via per Santiago de Compostela (Galizia, Spagna) è assicurata così come la forza del racconto filmico. La rabbia, che è anche rancore nei confronti di quel figlio mancato all’improvviso per una banale imprudenza, è pure il rifiuto di tutto il resto, a cominciare dai rapporti umani che divengono solo un intralcio lungo il cammino. Un passo dietro l’altro che vorrebbe essere incontaminato, solitario. Ma è proprio in questo allontanamento dal prossimo che l’uomo scopre di non piacersi e lentamente, nel suo procedere verso la meta, torna psicologicamente sui suoi passi, a riscoprire il senso dell’amicizia, la necessità di raggrupparsi, la primordiale inclinazione dell’essere umano come essere sociale. Così i compagni di viaggio ‘raccolti’ lungo il percorso, da consapevoli elementi di disturbo divengono incontri sorprendenti e pian piano piacevoli, tessere indispensabili per il completamento di un puzzle focale per un’intera esistenza. Buone le prove dei comprimari, fra cui spiccano Yorick van Wageningen (da citare Amore senza confini nel 2003) e James Nesbitt (Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato nel 2012).


Padre e figlio, nella realtà e nella finzione filmica, in un'altra scena 
Bravo Martin Sheen, che conferma la sua propensione recitativa all’introspezione, allo smarrimento interiore dell’uomo di fronte all’imprevisto. Padre e figlio nella finzione se la intendono (chissà se è così anche nella realtà, probabilmente sì, visti i risultati). E il navigato Sheen segue e aiuta, probabilmente, Estevez nel creare questo film che, forse, resterà il suo più bello (ma è ovvio che gli auguro altre intense soddisfazioni). I dialoghi sono credibili (così come significativi sono alcuni silenzi), essenziali quanto basta e anch’essi contributivi a tenere il cinefilo seduto nel buio e con intensa partecipazione di fronte al grande schermo. A tratti, tuttavia, la catena narrativa rallenta, il ritmo s’inceppa per poi, comunque, riprendere il suo flusso, in tempo per non causare distrazioni. Contribuisce al coinvolgimento una colonna sonora originale perfetta (Tyler Bates, City of Ghosts nel 2002) per il tipo di narrazione, ad avvolgere la splendida fotografia di Juanmi Azpiroz col contributo di Anthony Von Seck e dello stesso Estevez.

Un bel film, di quelli che in troppi vanno dicendo che gli Stati Uniti non sono capaci di fare. E invece loro sono lì, molto più spesso di quanto si pensi, a dimostrare che col cinema fanno quello che vogliono e quando vogliono. Opera senza dubbio da recuperare, possibilmente con dei figli accanto.

Stefano Marzetti

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